Hiphopmn

Quattro chiacchiere con Willie Peyote & Frank Sativa – Intervista

Quattro chiacchiere con Willie Peyote & Frank Sativa – Intervista

12310478_908970609139816_1564475498066247658_n

Iniziamo con un breve riassunto di come è stato quest’ultimo anno durante e dopo l’uscita del disco.
La parte più figa di quel che è successo dopo il disco è stato creare, in qualche modo, un agglomerato di musicisti – tra cui fra i più forti che ci sono nella mia città – che collaborano con noi.
In realtà la “Sabauda Orchestra Precaria” si chiama così perché non è mai uguale, non abbiamo mai fatto due concerti con la stessa identica formazione.
Però in questo bailamme di musicisti ci sono tante persone che non mi aspettavo avrebbero collaborato.
Avere dei musicisti che hanno 30 anni di carriera alle spalle che si prendono bene, partecipano,condividono con noi questo progetto e, quando possono, suonano con noi, per me è una grande soddisfazione.
Poi sicuramente rispetto all’anno scorso stiamo girando tanto, con appunto formazioni diverse, suonando dal vivo.
Infatti, il disco nuovo che stiamo preparando parte già sapendo che quei musicisti potranno darci una mano, e questo ci permette di strutturarlo in maniera diversa.

Abbiamo visto che hai lasciato il vecchio lavoro, hai fatto il disco e un tour in giro per l’Italia.
Ora che questo è diventato il tuo lavoro, e hai dunque più tempo per dedicarti alla tua passione, cosa è cambiato e cambierà?
Ho molto più tempo per prendermi male! (Ride)

Magari porta bene, dicono che il prendersi male crea belle canzoni…
Ma guarda, secondo me non del tutto. Questa gabbia artistica secondo la quale scrivi bene solo se stai male è una roba che vorrei non fosse così, sennò devo star male per forza!
Tornando a prima, sostanzialmente sono due anni che ho lasciato il lavoro, ed è anche grazie a questo che è stato possibile creare le varie connessioni con le persone di cui parlavo prima.
Se avessi continuato ad avere gran parte della giornata impegnata nel lavoro non avrei potuto approfondire certe cose, studiarne altre. Lasciare il lavoro è stata quasi una scelta obbligata ad un certo punto, anche perché non puoi prendere un permesso a settimana.

Il disco è suonatissimo. Ci si accorge subito che ci sono tantissimi musicisti, che appunto ti seguono anche live.
Ti anticipo che nel disco nuovo, ad esempio, non ci saranno quasi più basi. Comunque questa è stata una scelta ponderata mia e di Frank, entrambi volevamo metterci un po’ più di musica vera. Volevamo suonare noi ed avere a che fare con musicisti veri, anche il disco è stato ragionato così, poi abbiamo avuto la fortuna che siamo riusciti a creare quel suono, però l’idea di fondo c’era già.
Però, ad esempio, Jay-Z ha sempre fatto i concerti a metà tra dj e orchestra.

Basta anche solo guardare i booklet di un qualsiasi disco americano per vedere che dietro una sola canzone ci sono decine di nomi.
Esatto, siamo noi che siamo fuori da quel contesto lì, e pensiamo che il rap si faccia solo con le basi marce dicendo  100 barre una dietro l’altra.
C’è gente che è da 20/30 anni che fa queste cose, non ci siamo inventati un cazzo noi, però sicuramente nel disco c’è molta più musica che da altre parti.

Parlando invece dei pezzi del disco, ad esempio quello con Tormento, si percepisce una bella alchimia e il risultato è davvero ottimo. Anche il ritornello è davvero ben fatto, con Torme che canta e tu che ti inserisci.
Pensa che il paradosso di quel pezzo è che tutti si aspettano che sia nato con io che aggiungo le risposte al ritornello di Torme, invece è il contrario. Noi gli abbiamo inviato il pezzo con le mie risposte, perché il ritornello inizialmente doveva essere solo quello che dicevo io, poi abbiamo fatto aggiungere altre parti perché era proprio il pezzo adatto per Torme.
Sia io che Frank volevamo avere lui nel disco per quello che rappresenta per noi e per la musica in generale.
Poi il mio modo di vedere la musica è molto simile a quello di Tormento, quindi forse è uscita bene proprio per questo, perché siamo abituati di default ad entrare nel mood degli altri.

 “Etichette” è forse il brano più spontaneo, e che in un certo senso si stacca un po’ dal mood del disco. Cosa rappresenta per te?
“Etichette” in effetti è venuto fuori tutto d’un fiato, l’ho scritto senza quasi rendermene conto in una brutta serata. Per me rappresenta solo l’accettazione, non una vera e propria resa, ma l’accettazione che le persone non possono fare a meno di etichettarsi l’un l’altro per potersi capire.
Le etichette a volte te le mettono, altre volte per evitare dei rischi te le tieni, perché sai che quell’etichetta ha funzionato e hai paura di cambiare.

Forse, purtroppo, è ancora viva l’idea che se un artista si sposta leggermente dai suoi canoni allora di colpo fa schifo, mentre semplicemente può venir fuori un altrettanto buon prodotto.
È quello che penso anch’io. Qui però entriamo in un discorso complicato, ossia le etichette che ti mettono i tuoi ascoltatori.
Nel senso, ci sono persone che hanno un senso di possessività nei confronti degli artisti che ascoltano, per il quale se non fanno quello che vogliono loro, non piacciono più. Non conta che sia meglio o peggio, il punto è che tu artista non stai facendo quello che io mi aspetto, quindi non sei più tu e quindi non ti ascolto più. Spesso l’errore è anche di chi ascolta.
Ad esempio, c’è chi mi ha detto che in questo disco ho semplificato troppo. Può anche essere, ma questo disco è meglio dell’altro, non ci sono cazzi.
È suonato meglio, è rappato meglio, è più comprensibile, poi se non ti piace va bene lo stesso, però non dire che è peggio, dì che non è come ti aspettavi, anche perché è tecnicamente e obiettivamente meglio. Quello che io voglio fare è cambiare: il prossimo disco sarà comunque diverso da quello che ho fatto finora. Non vogliamo fare due volte la stessa canzone.

A proposito di questo, credo che se un domani il rap ti stancasse non avresti problemi a reinventarti in un altro genere.
Io sono un grande fan di Neffa, quando decise di cambiare genere io mica me la sono presa!

“Arrivi e partenze” infatti è davvero bello…
Esatto! Se fai della bella musica, è bella musica!
Non devi rompere il cazzo con “Se non campioni da quel vinile o se non gira a quei BPM allora non mi piace più”. Poi ognuno la pensa come vuole, però è un po’ limitante come visione delle cose.
Se c’è un disco black metal che mi piace lo ascolto, e se ho voglia di fare un pezzo black metal domani lo faccio! (Ride)

Mi viene in mente Dargen quando ha fatto “La banana frullata”.
Che è un pezzone!
Poi ci sono artisti che se lo possono permettere e altri no.
Ad esempio, io ho cercato fin da subito di dare la percezione di essere uno che cerca di variare, quindi la gente se lo aspetta.
È come “L’eccezione”: sono io che ho messo in bocca alla gente il fatto che io ero l’eccezione, non me l’hanno detto loro.

A volte ci si trova davanti a diverse tipologie di dischi, mi spiego: da una parte posso avere un disco come “Silenzio” di Rancore & Dj Myke, che è a tutti gli effetti un gran bel disco in materia di liriche, produzioni e personalità;  dall’altra parte ho un qualsiasi disco/mixtape di un artista molto più leggero, che quindi viene ascoltato più facilmente rispetto al primo.
Io credo che il tuo disco sia una via di mezzo azzeccata, con molti concetti e spunti interessanti e allo stesso tempo di facile ascolto e assolutamente non pesante.
Io credo che Rancore, che stimo moltissimo, non voglia essere troppo ascoltato, non è una delle sue priorità essere “ascoltabile”. Per me, invece, lo è.
Io la musica l’analizzo in un certo modo: la musica deve essere bella innanzitutto, poi puoi dire anche delle cose interessanti, però devi fare un pezzo bello.
Questo era proprio il nostro obiettivo, essere a metà tra un disco ben scritto e un disco ben suonato.
Il lavoro di arrangiamento eseguito da Frank in particolare è stato fatto proprio per far quadrare i conti, perché abbiamo lavorato tanto per fare un disco che si possa ascoltare dall’inizio alla fine.
Anche perché se di un disco ascolti solo tre pezzi, quello non è più un bel disco, sono tre bei pezzi.
L’ultimo bel disco di rap italiano che mi viene in mente è “Parole” di Mista, perfino gli skit sono geniali.
E secondo me “The Island Chainsaw Massacre” di Salmo si posiziona subito dopo, perché era davvero originale.

È il solito discorso, alla fine il disco può essere rap, pop, rock, ma se suona bene lo si sente.
Secondo me il disco di Salmo è stato per il rap quello che Calcutta ha fatto nell’indie italiano; in modo completamente diverso, ma è stata la stessa esplosione. Perché alla fine nessuno si inventa nulla, ma loro hanno seguito il loro percorso con una consapevolezza diversa.

Abbiamo visto che hai realizzato il video di “Io non sono razzista ma…” con il patrocinio del comune di Lampedusa. Ti va di raccontarci come è nata l’idea del pezzo e del video?
Lampedusa, per ovvi motivi, ci sembrava il posto più adatto per girare il video. Il pezzo di per sé è nato per sfinimento oserei dire, ormai l’argomento “immigrazione” in tutte le sue declinazioni è il primo argomento di conversazione al mercato, sul pullman, in sala d’attesa. Ero (e lo sono sempre di più) stufo di sentir dire un sacco di stronzate a tutti, senza soluzione di continuità, come se in realtà ripetessero tutti un copione.

Anche il documentario sempre girato a Lampedusa è molto interessante. Secondo te, in questo momento storico, quanto è importante mostrare così da vicino una realtà che troppo spesso ci appare solo in televisione?
Questo discorso vale per Lampedusa e per qualunque altro luogo nel mondo di cui sentiamo solo parlare, come la Siria, la Crimea e così via. Non sono esattamente un complottista ma mi sembra totalmente lapalissiano sottolineare che qualunque sia l’obiettivo attraverso il quale ci mostrano le cose, difficilmente non verranno filtrate ad arte e quindi, quando possibile, sarebbe il caso di andare sul posto per farsi un’idea reale.

Abbiamo visto che state già lavorando al nuovo disco. Ci puoi anticipare qualcosa?
Possiamo dirvi che proseguiremo nel nostro percorso evolutivo, per arrivare ancora non sappiamo dove ma sicuramente da un’altra parte. L’idea, come detto, è di continuare nell’uso di strumenti veri e di avvalerci dell’aiuto di musicisti e amici provenienti da altri ambienti e generi senza dimenticarci però da dove veniamo.
L’obiettivo è alzare l’asticella sia a livello di suono che a livello di bacino d’utenza, voglio arrivare a quelli che non la pensano come me perché continuare a parlare con quelli con cui sei già d’accordo non serve.

Focalizzandoci invece su Frank, altro protagonista del disco, com’è stato questo disco e quali sono i tuoi progetti futuri?
Dato che non sono un produttore che caccia centinaia di beat al giorno, volevo trovare una persona di riferimento con cui lavorare. Abitiamo nella stessa città, ci vogliamo bene e ci stiamo anche sul cazzo, però è una cosa che funziona. (Ride)
Tempo permettendo sto lavorando ad un mio EP strumentale con anche qualche ospite, ora cercherò di mettere tutto insieme e vedere come sarà la faccenda.
Mi piacerebbe anche fare il produttore a tutto tondo, che in parte sto già facendo, stando dietro ad ogni singolo suono.

Immagino che lavorare con altri musicisti comunque cambi il modo di approcciarsi alla creazione di un beat.
Chiaramente lavorare con altre persone cambia il tuo modo di produrre, perché devi mettere d’accordo tanti artisti. Per quanto riguarda il lavoro con i musicisti, da piccolo ho anche studiato qualcosa, ma nulla in confronto a quando hai a fianco persone con 30 anni di esperienza.
Posso partire da un’idea mia che poi un’altra persona prenderà evolvendola e dandole un valore aggiunto.

Simone Giorgis




Condividi con:

FacebookTwitterGoogleTumblrPinterest

Scrivi un Commento