Hiphopmn

Smoke DZA & Harry Fraud – Rugby Thompson (Recensione)

Innanzitutto, sono da notare le somiglianze tra i personaggi, qui Harry Fraud e Smoke DZA, entrambi di New York, entrambi non proprio ragazzini, entrambi hanno un marchio di fabbrica  – ‘’La musica de Harry Fraud/Riggght!‘’– entrambi fuori da una lunga gavetta per questo disco di nemmeno quaranta minuti suddiviso in 12 tracce senza un’ introduzione né un interludio di sorta.
Il disco si presenta con una copertina simile a una polo e presenta ben nove featuring tra cui Bronson, Sean Price (R.I.P.) e l’immancabile Curren$y, e viene anticipato dal singolo ‘’New Jack’’, tra l’altro secondo pezzo in ordine nella tracklist nonché una delle prove più convincenti.
Si apre quindi il disco con la titletrack (di cui dovreste riconoscere facilmente il campione), il singolo è ‘’Baleedat’’ (cioè, una cosa tipo…believe that) con il feat di Curren$y e fino a questo punto dubito che qualcuno sia riuscito a spegnere lo stereo non di meno dopo aver ascoltato ‘’Playground Legend’’, storytelling a metà tra la vita di strada e la gavetta nel Rap, accompagnato da una base meravigliosa, una delle più belle dell’ album.
Si continua quindi su questa linea, banger su banger, fino alla malinconica ‘’Rivermonts’’, senza cali di tensione eccetto forse proprio le ultime due tracce.
Ottime le prove di Price e A$ap Twelvyy, buone le altre, pessima quella di Bronson se non altro per il refrain veramente orribile.
DZA si mantiene costante tra referenze alla cultura pop, punchline,  wordplay e quel particolare flow che lo ha reso ad oggi uno degli Mc più quotati di New York; stesso discorso valido per Harry Fraud, davvero ottime basi ben radicate nel suono della grande mela ma allo stesso tempo innovative.
Ma allora cos’è che non convince?
Forse è un problema di durata, anche se in realtà è proprio la durata a farmi ascoltare questo lavoro più e più volte, o si tratta della mancanza di un concept, appena accennato, che porta comunque DZA quanto meno a focalizzare due o tre soggetti e a tenersi un minimo lontano dal suo argomento principale, ovvero quella
kush che gli ha regalato il nomignolo di Kushgod.
Ripeto, il
sampling varia da genere a genere come da anno in anno con soluzioni sempre molto originali, buone le rime non tanto per il contenuto quanto per il flow, tuttavia a volte sembra di ascoltare uno street-album più che un disco, e l’impressione è quella di un disco realizzato in modo molto veloce come si evince dalle strutture semplici e brevi.

In conclusione, l’album è un degno figlio dei nostri tempi, privo di una forte identità come succedeva nei novanta, a metà tra l’evoluzione in corso e il mantenimento di ciò che è stato fatto, nonostante sia privo di molti fattori dell’uno e dell’altro e per questo incapace di affermarsi a gran voce.
7/10
Matt Rocc




Condividi con:

FacebookTwitterGoogleTumblrPinterest

Scrivi un Commento